Se sei uno smanettone o un utente esperto e ormai maneggi la firma digitale con padronanza non leggere questo articolo perché perderesti il tuo tempo. Il post è destinato infatti a coloro che considerano la firma digitale una diavoleria informatica e stanno subendo quasi come una violenza questo lungo periodo di cambiamenti nella gestione dei documenti da e verso l’amministrazione della giustizia. Purtroppo sono ancora tanti e, periodicamente, colleghi, curatori fallimentari e controparti mi chiedono l’invio della copia non firmata dei file poiché non riescono ad aprire il famigerato .p7m. Devo confessare che, oggi, la richiesta è abbastanza spiazzante.
Quella della firma digitale in Italia è una lunga storia iniziata con la direttiva 1999/93/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche. La direttiva è entrata in vigore il 19 gennaio 2000 ed è stata recepita in Italia nel 2002 (D. lg. 23 gennaio 2002, n. 10).
La firma digitale serve ad assicurare ad un documento:
Il sistema per funzionare ha bisogno di una coppia di chiavi, quella privata e quella c.d. pubblica. Le chiavi sono attribuite al soggetto titolare dal fornitore del dispositivo di firma digitale.
L’estensione .p7m che troviamo su alcuni file che spesso si ricevono in allegato a messaggi di posta certificata identifica appunto quei documenti che sono stati sottoscritti digitalmente.
Esistono dei software appositamente creati per aprire questi file.
Vi segnalo Aruba Sign e Dike . Nel sito dell’Agenzia per l’Italia Digitale trovate un elenco di software per la verifica e la lettura dei documenti in questo misterioso formato dove potrete trovare anche alternative ai due programmi citati.
Ora non ci sono più scuse. Eh ! 😉
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